lunedì 5 settembre 2016

Exitus

Forse il tempo non esiste. Ci serve per dare un ordine alla nostra esistenza, ma non appena chiudiamo gli occhi passato, presente e futuro – perché noi non possiamo sapere cosa sia il futuro finché non ci siamo dentro – si mescolano e si scompongono. Un evento risalente ai primi mesi della nostra vita pulsa nella nostra mente come cosa viva e bruciante mentre la storia dell’ultima settimana trascorsa svanisce come un sogno al risveglio. Qualcuno potrebbe obiettare che è semplicemente il sistema con cui il nostro cervello elabora e assimila gli accadimenti più o meno significativi della nostra esistenza ed è un’osservazione sensata, ma allora è proprio per questo che il tempo, al di fuori di noi, non esiste oppure è una cosa totalmente diversa, aliena. Dico questo perché penso che al tempo si dia continuamente il significato sbagliato. Negli animali distinguere il "prima" e il "dopo" è fondamentale per acquisire esperienza, perché i cosiddetti ricordi servono loro per non ripetere gli errori che in passato li hanno messi in pericolo. All’uomo invece il tempo non serve a niente. Noi dimentichiamo continuamente e lasciamo che dettagli insignificanti della nostra vita diventino giganteschi, fino a trasformarsi a volte in bubboni velenosi e ingombranti che rivelano la propria pochezza di contenuto solamente dopo l’esplosione. E allora ci si strugge, ci si strappa i capelli per l’errore di valutazione commesso, ma è un eterno ritorno, la caverna lasciata dal bubbone è pronta per essere riempita da nuova, inutile immondizia. In alcuni casi invece accadimenti enormi diventano in pochi attimi pulviscolo che una brezza leggerissima spazza via con sconcertante facilità. Nel silenzio della notte ci impegniamo a ricompattarli, a definirne i bordi, la dimensione, ma è una fatica spaventosa e incomprensibile.

Negli ultimi mesi ho pensato molto a tutto questo. O meglio, è la mia mente ad approdare a certe elucubrazioni quando la lascio a briglia sciolta nella speranza di cogliere il bandolo della matassa, di arrivare ad un’elaborazione compiuta dell’evento che forse lascia più disorientati nella vita di una persona, l’evento definitivo, il capitolo finale. Nel mio pur breve curriculum ho visto molte persone morire, altre le ho viste già morte. Non esiste compagna di lavoro più fedele di lei, e in un certo senso mi sono abituato alla sua presenza, come in un albo di Dylan Dog. La vedo seduta a fianco dei malati oncologici, stanca di aspettare che un cuore troppo robusto smetta di funzionare. Vedo il suo marchio nelle bocche spalancate nel mezzo dell’ultimo respiro, nelle smorfie di dolore che la morfina non è riuscita a cancellare, nella pelle giallastra e traslucida del viso. In tutte le occasioni in cui ho avuto a che fare con lei non sono stato a ragionare molto sul tempo, su quello che era e ora non è più. I pensieri e le parole stanno in superficie, sono stereotipati a seconda dei contesti, ed è giusto così. Noi non possiamo permetterci di perdere troppi pezzi per strada.

Quello che è successo in questi mesi, però, è nuovo. Ho visto una storia finire e per la prima volta l’ho vista da due punti di osservazione diversi. Ero medico ed ero nipote, e la mia mente è entrata in corto circuito.

È una storia banale, simile a migliaia di altre storie, ed è durata pochi mesi. Un battito di ciglia nell’arco di una vita, il tempo di passare da un mal di testa inspiegabile all’exitus (ci piace darci un tono usando parole che riempiono la bocca). È inutile raccontarne il dolore, lo sconcerto, il devastante senso di impotenza, il senso di colpa da tenere a freno (quel mal di testa… da quanto tempo aveva quel mal di testa?) e il finale che sa di liberazione. È tutta roba già sentita. Lei ora non è più tra noi.

Ma il tempo ha perso significato e lei c’è ancora. Gli ultimi sei mesi sono polverizzati.

Penso continuamente alla sua casa in montagna, alla neve che iniziava a cadere pochi minuti dopo il nostro arrivo. Al giorno della mia laurea. Ai Natali. Io sono ancora lì, sento il caldo del camino e il vento ghiacciato sul viso, mentre l’immagine di lei sul letto d’ospedale è già sbiadita. È un processo terrorizzante e affascinante allo stesso tempo. È forse rimozione? Io non lo so. Forse l'accaduto è troppo fresco per dirlo, chi lo sa, e forse sto scrivendo queste righe per darmi una risposta.

Ma il tempo non esiste. Esistono i momenti. Belli, brutti, terribili, meravigliosi. Se noi nutriamo quelli giusti, le persone che che hanno contributo a costruirli, a volte a tal punto da diventare momenti esse stesse, ecco, quelle persone diventano immortali. E il dolore spara stupidi proiettili di gomma.

Ma forse è davvero troppo presto per dirlo.

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