giovedì 6 ottobre 2011

Franco Steiner

Quando l'uomo che rispondeva al nome di Franco Steiner scese dal taxi una scossa formidabile gli riempì il braccio di spilli. Percorse il vialetto di casa, cercò in tasca la chiave e nell'infilarla nella toppa una nuova scarica gli diede il benvenuto. Girò la chiave usando la sinistra, mentre il braccio destro penzolava morto dalla spalla. Varcò la soglia e annusò l'aria familiare: qualcosa non andava.
Era tornato a casa un paio di mesi prima. La settimana di latitanza aveva richiamato, in odore di testamento, i gradi più remoti di cuginato. Dopo aver varcato la soglia Ginevra, bionda più che mai, l'aveva abbracciato a naso e bocca serrati, per evitare di essere violentati dalla nube di alcol e sudore che lo avvolgeva. Ma non gli aveva fatto domande. Non l'aveva guardato in faccia. Da brava mogliettina lo aveva accompagnato in bagno e solamente mentre lui si radeva gli aveva chiesto cosa fosse successo. Aveva dato risposte vaghe: qualcuno gli aveva dato una botta in testa, e qualcun altro, quel mattino, l'aveva svegliato su una panchina del parco. Ma che importava? A lei interessava che l'uomo con la carta d'identità e soprattutto le carte di credito di Franco Steiner fosse sano e salvo.
Posò le chiavi sul tavolino del soggiorno e camminò a fari spenti in quelle stanze piene di oggetti misteriosi. Come l'orologio fermo, congelato dal suo creatore nell'eterna posizione delle 12,30. La batteria al suo interno non faceva altro che assicurare l'assoluta fissità di quell'attimo, e la moglie di Franco aveva deciso di ergere quell'affare a simbolo della casa appendendolo all'architrave dell'ingresso. Assaporò l''immobilità perversa delle sue lancette, ma c'era qualcosa, qualcosa che incrinava quella perfezione di cristallo, e nella penombra lo individuò: un'anomalia nell'aria, molecole di un odore fuori posto. Quando lo riconobbe si bloccò, con le lancette dell'orologio inutile ad indicarlo con il suo acume diamantato, e rise e rise e rise, meravigliandosi di quel suono che aveva dimenticato. Così la sacra e vacua immobilità di quelle mura era violata, sussurri ricchi di panico scappavano dalle lenzuola, bisbigli dell'individuo che un paio di sere prima gli aveva impartito la sua morale da quattro soldi, confezionata e pronta all'uso, fissando un boccale pieno di birra e di se stesso. Ripensando a quella serata il suo riso si alzò di una tonalità, e dopo qualche attimo Ginevra si affacciò dalla camera. – Oh caro, sei già tornato? – disse con voce afona.
– Scusami tesoro, non volevo interrompere la tua scopata. Volevo solo comunicarti che mi sono licenziato, e con immenso piacere ho mandato affanculo tuo padre.
Non aspettò la reazione a quella raffica di schiaffi. Girò i tacchi e uscì da quella casa, lasciando uno strascico di risate. Prima di chiudere la porta gridò: – Ah, vero che il Moretti ce l'ha piccolo? Gliel'ho visto una volta in bagno. Mi meraviglio di te, cara. Non è da te accontentarti così.
La serata era fresca e decise di camminare. Il termometro digitale di una farmacia diceva che c'erano quattro gradi sottozero. Cazzo. Quattro gradi sotto e lui pensava che l'aria era fresca? Era cambiato così tanto in così poco tempo? Si fermò davanti ad una vetrina e vide il cappotto che il suo riflesso indossava. In un rapido gesto se lo tolse, lo gettò a terra e si strappò via il maglione di cachemire. Rimase in maniche di camicia e finalmente sentì il gelo che tagliava la carne e stringeva il cervello in tenaglie d'acciaio. L'aria era gelida, cazzo, ed era quella la verità.
Il quartiere in cui viveva Franco era un agglomerato di abitazioni raggrumate attorno ad una strada senza uscita. Ville gigantesche, popolate di oggetti luccicanti e servitù silenziosa, a cui i SUV accedevano procedendo piano, perché in quell'isola tanto perfetta quanto irreale era fondamentale portare rispetto al vicinato, e altrettanto importante era conquistarselo. Per questo la strada non era una strada, ma una passerella con i tombini laccati d'argento, su cui le auto tirate a lucido anche nei giorni di neve sfilavano specchiandosi sulle grandi vetrate delle abitazioni. L'uomo passò davanti a Villa Lecchi, in cui il suocero, nonché ex datore di lavoro, aveva organizzato, qualche giorno dopo il suo ritorno, una festa in suo onore a cui aveva partecipato tutto il quartiere, compreso papà Gustavo, notaio. Quella sera aveva concesso un giorno di libertà all'autista, si era seduto al posto guida del Cayenne e con un sorriso aveva strizzato l'occhio alla moglie, camuffata sotto una pesante intonacatura di fondotinta a causa di quel disgraziato del suo estetista, che aveva sbagliato le regolazioni della lampada solare. – Sei pronta per una grande emozione? – le aveva sussurrato, prima di schiacciare a tavoletta l'acceleratore e lasciare due metri di pneumatico sull'asfalto impeccabile. Ginevra aveva lanciato un urlo disumano, l'aveva schiaffeggiato sul braccio pregandogli di fermarsi, ma lui non aveva mollato e davanti a Villa Lecchi aveva inchiodato, mettendo a dura prova l'ABS del Cayenne. La moglie si era ricomposta ed erano entrati a braccetto nel salone, dove li aveva accolti una selva di sorrisi troppo bianchi e applausi troppo ovattati. Gustavo gli aveva stretto la mano e sua madre l'aveva baciato sulle guance. L'avvocato Lecchi gli aveva dato un buffetto sulla guancia. Nessuno l'aveva guardato in faccia. Lui aveva sorriso tantissimo, mentre con gli occhi cercava l'angolo dei superalcolici. Era accanto alla zona della polvere magica, in cui gli ospiti potevano incipriarsi il naso al riparo da occhi indiscreti dietro ad eleganti paravento.
Il resto della serata gli sfuggiva e nessuno gliel'aveva mai riferito: non Ginevra, che si era limitata a non rivolgergli la parola se non nelle occasioni strettamente pubbliche; non l'avvocato Lecchi, per cui sembrava non fosse successo nulla; non i colleghi, che come sempre lisciavano il pelo come è usanza fare con il genero del capo; e non il padre Gustavo, che grazie alla potenza del suo cognome aveva sistemato il pasticcio senza muovere un dito. Forse doveva ringraziarlo, perché grazie a lui il suo piccolo esperimento era riuscito alla perfezione.
Già, un esperimento. Quella sera, prima di uscire, si era guardato allo specchio e si era detto: vediamo un po', caro Steiner. Vediamo se hai ragione tu. Vediamo la loro reazione. Dopo il suo ritorno, in realtà, non servivano ulteriori conferme, ma quella festa era stata la vera apoteosi, la dimostrazione definitiva della tesi iniziale. Soltanto Moretti aveva accennato un briciolo di scompostezza. – Non ti riconosco più – gli aveva detto senza guardarlo in faccia, prima di vomitare un lungo discorso sul rispetto dei colleghi, del ruolo che rivestiva, assieme ad un'altra camionata di parole che aveva presto dimenticato. Ma fin dal primo momento aveva capito che Moretti era uno di quelli a cui piace verniciare ogni cosa delle sue verità inattaccabili, e non bisognava prestarci molta attenzione. Una persona misera, miserrima, se alla fine dei conti si riduceva a trombarsi quel mostro botulinico di Ginevra, a dispetto della tronfiaggine con cui decantava gli sguardi estasiati delle sue conquiste. – Non ti riconosco più – Ma tu guarda.
Povero Moretti, gli faceva quasi pena.
Gli ci vollero pochi minuti per uscire dal quartiere. Ora navigava in mare aperto, nella città vera, e ne respirava l'odore a pieni polmoni. Camminò sicuro, schivando auto parcheggiate male, calpestando merde di cane con le sue scarpe di pelle lucida, lasciando generose elemosine ai mendicanti.
Arrivò a destinazione dopo un'ora. In tasca gli erano rimaste le carte di credito e la carta d'identità. I bidoni incandescenti riverberavano sulle sponde del fiume, sovrastati dal ponte di ferro. Franco strinse gli occhi e mise a fuoco una baracca fatta di lamiere. Scese lungo il terrapieno a grandi falcate, inciampò e terminò la discesa rotolando. Si rialzò ridendo come un pazzo e corse fino alla baracca.
Tre uomini si strofinavano le mani sui fuochi. Nessuno gli prestò attenzione, mentre entrava nella baracca. Su una branda un uomo avvolto da coperte strappate tremava da capo a piedi.
– Ciao – disse al barbone.
L'uomo sulla branda aprì due fessure tra le palpebre. – Chi sei? – chiese con un sussurro.
– Non mi riconosci?
L'uomo spalancò gli occhi ed esclamò: - Mio dio, Franco!
– Così mi chiamano – disse l'uomo in piedi.
Il barbone tacque qualche attimo, prima di chiedere: – Che ci fai qui?
– Avevi ragione, sai? Avevi ragione su tutto.
Il barbone sorrise, poi rise. Da quanto tempo non lo faceva?
– Ginevra se la fa con Moretti – disse l'uomo in piedi.
Il barbone non smetteva di ridere. – Oh, lo sapevo già! Li hai beccati?
– Proprio adesso. Mi sono licenziato e sono tornato a casa prima. Non l'ho visto ma ho sentito la puzza di quel suo dopobarba di merda.
– Davvero ti sei licenziato?
– E ho mandato affanculo il caro dottor Lecchi. – L'uomo in camicia si sedette per terra, mentre il barbone rideva sempre più fragorosamente. – Sei un genio, sei un genio – disse asciugandosi gli occhi.
– Direi che l'esperimento è riuscito. Hai vinto la scommessa.
– Che ti avevo detto? – disse il barbone. Di colpo si fece serio. – Ma tu che vuoi adesso?
– Rivoglio la mia vita.
Il barbone rimase a bocca aperta. – Ah, questa è vita per te?
L'uomo a terra rise. – Di certo non è peggio della vita dell'avvocato Franco Steiner.
Il barbone sembrò disorientato. – Ma cosa potrei fare adesso? Senza più un lavoro, senza più una famiglia... Se lasciassi mia moglie, mio padre mi diserederebbe all'istante. Che potrei fare?
– Dovresti ringraziarmi. Sei libero, ora. Hai una vita meravigliosa davanti a te. E adesso alzati dalla mia branda, per favore.
– Era così comoda – disse Franco Steiner alzandosi da quello scheletro di letto.

Dopo una settimana varcò la soglia dello studio legale Lecchi con la moglie sottobraccio, salutò tutti i colleghi, strinse la mano al suocero e si accomodò alla sua scrivania.
In casa Steiner l'orologio segnava le 12,30.

Racconto silurato a un concorso. Che ne pensate?

5 commenti:

  1. Davvero niente male,ricorda un po "Un povero ricco" con Renato Pozzetto.
    Ma forse sei un po troppo giovane per ricordarlo;comunque ben scritto.
    Alex

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  2. Spietata e pregnante satira sociale, a mio avviso già preannunciata dal cognome Steiner.

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  3. Vero, ha qualcosa del film di Pozzetto, anche se la tua è un'opera dai contorni decisamente più drammatici, per quanto alla fine si sorrida (si sorride? mah, diciamo che si è portati alla riflessione!).
    Comunque hai un innegabile talento e l'inventiva certo non ti manca.
    Complimentoni.

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  4. Penso che io non lo avrei silurato. Punto.

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  5. Perdonate la latitanza... Grazie dei complimenti! Credo di aver visto quel film molto tempo fa, ma non ricordo quasi nulla... Caro Zio, non sai quanto mi facciano piacere i tuoi attestati di stima, rischio di montarmi la testa...:-)

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