mercoledì 29 settembre 2010

Se questa è l'Italia

Questa mattina sono andato ad assistere ad una seduta di laurea. Prima della proclamazione è intervenuta una ricercatrice dell'Università di Pavia con una lettera aperta a nome suo e di tutti i suoi colleghi. Una lettera grondante passione e preoccupazione, recitata da una voce che a stento ha trattenuto l'emozione. I ricercatori dell'Università di Pavia, dice la lettera, hanno deciso di non sospendere la didattica. In loro prevale il senso di responsabilità nei confronti degli studenti, anche se la loro mansione permetterebbe loro di fregarsene altamente. Ma loro guardano avanti, e quello che vedono è preoccupante. Vedono l'istruzione pubblica colare a picco, trascinando con sé tutto il resto. Alla fine del discorso tutta l'aula ha applaudito calorosamente. Una scenetta tanto bella ed edificante quanto lercia di ipocrisia, e in quel preciso istante ho pensato: questa è l'Italia. Tutti ad applaudire, tutti a fare sì con la testa di fronte ai principi sacrosanti, ma quanti poi portano quei principi a casa e li applicano nella vita di tutti giorni? Quanti voltano loro le spalle non appena si presenta l'occasione? E soprattutto, quanti di quell'aula danno la loro fiducia, e il loro voto, a chi di quei principi ha fatto carta straccia? Si spellano le mani a sentire parlare di merito, si riempiono la bocca di questa bellissima parola, ma non muovono un sopracciglio davanti ad un ministro che sputa nel piatto in cui mangia, davanti ad un Parlamento trasformatosi in una casa chiusa, piena di zoccole incravattate disposte a vendersi per una seggiolina, davanti ad un imprenditore settantaquattrenne che oggi in aula parla di "responsabilità", di "clima d'odio", di "imbarbarimento della politica", sapendo benissimo di esserne il principale artefice, consapevole che i ribelli rientreranno zitti e muti nei ranghi e tutto tornerà come prima. Non si scompongono minimamente di fronte a un signore indagato per camorra difeso non da un avvocato in sede di processo, ma coperto, protetto da un intero partito politico. Niente, non c'è la minima reazione, anzi. Alla fine è giusto farsi i fatti propri. Alla fine è giusto crearsi le proprie occasioni. È così che si fa strada, nella vita. E chi se ne frega di tutto il resto. Chi se ne frega se esistono posti in Italia in cui accade che un boss camorristico venga acclamato nel pieno di una festa popolare:



"È così che funziona, da quelle parti", dicono scuotendo la testa, prima di telefonare all'amico professore perché "mio figlio è tanto bravo e tanto studioso, ma in questo periodo è stato male, sai, e non ha potuto studiare tanto. Ti pregherei di tenerne conto".
Ma certo, carissimo. Sono a tua disposizione.

8 commenti:

  1. Capisco sempre meno coloro che s'indignano se all'estero si parla male dell'italia. Siamo la merda del mondo.

    RispondiElimina
  2. Purtroppo finchè la camorra darà lavoro e farà girare il denaro ci sarà sempre una parte del popolo che sarà pronto a fare queste ricche figure di merda in piazza...

    Come direbbero a Napoli:
    Cos e pazz!

    Roba da matti.

    RispondiElimina
  3. Io dal titolo toglierei il "se".

    RispondiElimina
  4. credo di conoscerla quella festa...come giustamente dice il rospo, cos 'e pazz! mentre lo zio direbbe rob de met (da qualche riminiscenza di milanese)...ogni commento è superfluo, caro ale! :(

    RispondiElimina
  5. * nico
    più esattamente Ropp de matt... (e, in sintonia con l'ottimo post che sta qua sopra - ognuno è sempre "il terrone" di qualcun altro - devo diffidarti dal dare del milanese a un varesino...) :-)))

    RispondiElimina
  6. Sembra di essere in un labirinto senza uscite...

    RispondiElimina
  7. stavo rispondendo qui allo zio...ma mi son detto che forse è meglio che vado a rompergli le scatole da lui :)

    RispondiElimina
  8. @Nico: ma figurati, non rompete mai le scatole!

    RispondiElimina

Rispettate le regole del buonsenso e della civiltà, e una firma non guasta mai. Nascondersi dietro ad un "anonimo" è solo un modo per non prendersi la responsabilità di ciò che si dice.