domenica 11 luglio 2010

Velleità letterarie

Un po' di tempo fa ho scritto un racconto dal titolo Faber50. Sarei molto curioso di sapere cosa ne pensate...

Il pusher si chiamava Morgan, lo aveva scoperto la sera prima in rete. Il suo fornitore di fiducia aveva trafficato troppo, era dentro ormai da una settimana. Il blitz era davvero ben riuscito, dieci in una botta. Quella mattina di novembre aveva il colore e il sapore del catrame, e di catrame era il suo umore. Era imballato nel suo X5 a benzina poco distante da un semaforo, ed era successo qualcosa di grave proprio al centro dell’incrocio. L’ambulanza sostava ormai da venti minuti appena oltre il semaforo.
Qualcuno sta male, aveva pensato, forse peggio di me. Il mostro ruggiva docile sotto di lui, mentre più indietro qualche clacson credeva di risolvere quel rompicapo stradale. Oppure era consapevole di aggiungere altro caos al caos? I pensieri dell’ometto sull’X5 andavano ormai a briglia sciolta, scomponendosi e ricompattandosi in fantasiosi arabeschi intellettuali, quando il giornale radio aveva riportato la notizia del blitz avvenuto nella notte. La zona era familiare. I pensieri erano precipitati assieme al suo umore già poco felice. Magari è scappato, aveva pensato. Comunque per un po’ non si farà vedere in giro, aveva immediatamente ribattuto. Mentre nella X5 l’ometto parlava da solo sudando come un maratoneta, l’ambulanza era ripartita. Davanti a sé aveva strada libera, ora, e i clacson erano tutti dedicati a lui, ora. Aveva interrotto il personalissimo dibattito ed era ripartito con furia.
Quando era rientrato, quella sera, aveva trovato un biglietto della moglie incollato al frigorifero, che aveva gettato senza degnare di uno sguardo. Nessuna traccia del figlio, ovviamente. Perfetto. Aveva acceso il pc e aveva trovato la solita chat in fibrillazione. Tutti sapevano del blitz. Lui, nickname Faber50, aveva subito chiesto del suo amico Orwell, ma intuendo in fondo la risposta. “È dentro anke lui”. Era Brown_Sugar70, asciutto come sempre. C’era da fidarsi, in quel club fatto di bit chi provava a fare il furbo si tagliava fuori da solo. Tra quei nicknames senza volto si instauravano rapporti di fiducia profonda, erano portati a una naturale condivisione, come naufraghi sulla stessa isola dimenticata.
Avevano deciso che si sarebbero ritrovati sei giorni dopo. Nessuno avrebbe dovuto tentare di connettersi prima, era troppo rischioso. Uno a uno i partecipanti erano usciti, erano tornati alle loro misteriose mansioni. Parecchie volte Faber50 si era chiesto quale fosse la vera vita dei suoi compari, cosa ci fosse dietro a quegli alias che mascheravano la vergogna. Capiva che era una domanda dalle risposte infinite.
Già, chissà gli altri cosa pensavano di lui, Faber50. Non sapevano di sua moglie, di suo figlio e della sua invidiabile esistenza. Non sapevano del suo ambulatorio, sempre affollato di pazienti vecchi e giovani in attesa di una ricetta, di conforto o di nuove pasticche da sperimentare, nella convinzione di essere eternamente malati. Anche loro dipendevano da qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Lui era forse peggiore di loro? Mentre spegneva il pc con le mani tremanti si era chiesto questo ed altro, e non aveva idea di come avrebbe potuto tirare avanti quella settimana. Era andato a letto con un unico pensiero in testa.
Aveva passato quei sei giorni in preda a una frenesia quasi sovrannaturale. In casa si era visto ben poco, un paio di volte aveva sfiorato la moglie che tentava di comunicargli qualche sciocchezza casalinga, e martedì sera aveva incrociato il figlio, comparso a casa sua all’improvviso, come sempre. Per qualche strano motivo il loro rapporto era divenuto gelido, ormai da un anno, e nessuno dei due sembrava intenzionato a rompere il muro di freddo che li separava. Luca aveva un buon lavoro, e questo bastava. Faber50 si domandava a volte cosa fosse successo. Credeva che suo figlio sospettasse qualcosa.
In ambulatorio le cose erano andate bene, per una volta la sala d’attesa sovraffollata e le lunghe tirate ben oltre l’orario di visita stampato sulla porta l’avevano rallegrato. Una sera, dopo aver smaltito la lunga coda di malati o presunti tali, aveva chiuso la porta a chiave ed era scoppiato in lacrime. Aveva preso a insultarsi, se avesse potuto si sarebbe preso a botte fino ad uccidersi. La crisi di coscienza era durata circa venti minuti, dopodiché aveva pensato: mancano solo due giorni. Quella sera si era coricato sul suo letto ed era piombato in un sonno di sasso. La donna accanto a lui dormiva, distante mille miglia da suo marito.
I due giorni erano passati, e la sera in chat aveva scoperto il nome del suo nuovo amico. Brown_Sugar70 lo conosceva, bazzicava in una zona poco frequentata dal loro gruppo, ma dopo il blitz aveva deciso di ampliare la clientela. “Vende roba buona. È in giro da poco ma si è fatto già un buon nome. Si chiama Morgan”.
Il sole ancora dormiva e gli alberi galleggiavano nella bruma, mentre lui aspettava in macchina. Mancavano pochi minuti alle sei, l’ora convenuta. L’X5 era spento e i vetri si stavano lentamente spalmando di vapore acqueo e del fumo delle sigarette che macinava una dietro l’altra come grissini prima del pranzo. Nonostante il freddo stava sudando copiosamente. Stare a secco quella settimana l’aveva sbattuto ben bene. Ripensò al biglietto che aveva lasciato sul cuscino per sua moglie, in cui spiegava che aveva un appuntamento imprevisto con un paziente, e gli scappò una risata: era tutto vero, tranne che per un piccolo particolare. Era lui il paziente.
Diede un colpo di straccio al vetro. Non si vedeva nulla, fuori, nemmeno l’ombra di un movimento. Gli alberi sembravano morti. Non era mai stato in quel parco prima, Brown_Sugar70 gli aveva spiegato accuratamente come arrivarci. Era un posto davvero molto adatto per la compravendita: fuori città, lontano dalle strade maggiori, poche case all’intorno. Poteva succedere di tutto in quel parco. Nella sua mente si accese l’immagine di un uomo legato a un albero, e una bustina abbandonata a mezzo metro dai suoi piedi. L’immagine prese vita, e vide l’uomo scalciare, grugnire, masticare le corde per liberarsi, ma era tutto inutile. Le corde erano robuste e l’uomo era debole e gracile.
Sei messo male, cazzo, cazzo! Si chinò sul volante e azionò il clacson con una testata. Il suono annegò nella nebbia, ma su Faber50 ebbe l’effetto di una secchiata d’acqua gelida. L’orologio sul cruscotto segnava le 6 in punto.
Alzò la testa e scorse un movimento tra gli alberi. Inizialmente era poco più di un’increspatura nella nebbia, ma dopo pochi secondi si delineò una sagoma umana che avanzava verso l’automobile. Doveva essere distante un centinaio di metri circa dall’automobile, quando si fermò accanto a un albero. Faber50 scese dal suo bestione, e il freddo lo colpì allo stomaco come un pugno. L’aria gelida gli strisciava in gola lentamente e dolorosamente. Cadde in ginocchio davanti a un albero, le mani strette al collo. Credette di essere morto.
Ma era solo un colpo di freddo e dopo qualche minuto l’aria riprese a viaggiare tranquilla, mentre il suo corpo provvedeva a fatica ad adattarsi alla temperatura. Si rialzò e prese a camminare verso Morgan. Man mano che procedeva, la sua figura si delineava sempre più: alto, snello, scorgeva la sfumatura bluastra dei suoi vestiti. Jeans, pensò.
Camminava forse da un minuto, quando vide Morgan muoversi. Credette che il suo nuovo amico stesse avanzando verso di lui, ma gli bastò qualche istante per capire che il pusher si era voltato e se ne stava andando, a passo spedito. Stava scappando con il suo borotalco preferito.
Non si preoccupò minimamente del perché di quel gesto. Pensò a cosa fare: inseguirlo in auto era impossibile, gli alberi erano troppo fitti. Senza ulteriori riflessioni, con lo scatto più bruciante della sua mezza età, si lanciò al suo inseguimento. Per qualche minuto tenne un ritmo forsennato, grazie alla scarica di adrenalina incazzata che l’astinenza gli aveva procurato. Nel frattempo insultava con grande fantasia il suo nuovo grande amico – ex grande amico – e chiedendosi quale parte del suo miserevole corpo avrebbe colpito per prima dopo essersi procurato la sua gustosissima neve. Scorgeva davanti a lui la macchia blu sempre più indistinta, e si diceva che ormai mancava poco. Dopo cento metri l’adrenalina si dissolse, e di colpo si liberarono tutti i mali che affliggevano Faber50. Si fermò con un grido, non aveva una minima parte del corpo che non gemesse di dolore. Cadde in avanti, e con l’ultimo riflesso che gli rimaneva evitò di finire con la faccia immersa nella terra umida. Stette per uno o due secondi così, il fermo immagine di un atleta al culmine di un piegamento, prima di lasciarsi andare e giacere immobile per molto tempo.
Quel giorno non si presentò in ambulatorio. La moglie lo vide arrivare molto tardi, quella sera, sudicio e immerso in una nube vagamente alcolica. Non credeva ai propri occhi. Tentò di scoprire cosa fosse successo, ma suo marito sembrava aver perso definitivamente la capacità di comunicare. Faber50, alias Fabio Morganti, le disse che era stata una giornataccia e che aveva bisogno di un bel sonno. “Tutto qui?”, chiese la moglie. Fabio si voltò verso di lei, sembrava stupito della domanda. “Tutto qui. Che altro deve esserci? Vado a dormire, buonanotte”. Avanzando a zig-zag, tra invisibili paletti, entrò in camera da letto e chiuse la porta.
La moglie Rita si rifugiò a piangere in cucina, dove la tv stava trasmettendo l’edizione notturna del telegiornale. Era china sul tavolo ormai fradicio di lacrime, quando colse la notizia di un nuovo arresto nell’ambito della lotta alle droghe. Questa volta si trattava di Luca Morganti, conosciuto nell’ambiente come Morgan. Era stato arrestato quel pomeriggio. Il giornalista raccontava che i carabinieri lo avevano trovato in stato confusionale, sicuramente ubriaco, nei pressi di un parco in periferia. Rita alzò la testa di scatto, e vide suo figlio entrare in un’auto dei carabinieri in manette. Aveva un’espressione indecifrabile, non sembrava affatto un pusher in manette. Pareva anzi contento, per qualche motivo misterioso. Rita urlò. Fabio inizialmente fece di tutto per ovattare quel suono orribile, ma dopo pochi minuti si alzò con una sonora imprecazione. Barcollando andò in cucina e biascicò: “Che diavolo succede?”.
“Hanno arrestato tuo figlio. Aveva un bel lavoro, sai, si faceva chiamare Morgan. Faceva il droghiere, pensa te, il droghiere!”.
Fabio si sedette a terra, il volto più bianco della luna, il sangue congelato nel cuore ammutolito. Si prese il volto tra le mani e iniziò a parlare. Raccontò a sua moglie la vita di Faber50, e di come Morgan sarebbe dovuto diventare il suo nuovo migliore amico. Rita ora non piangeva più. Tutti i pensieri erano scappati, rimaneva un cervello vuoto, racchiuso nel bel corpo di una donna di quarant’anni.
Fabio disse: “Credo di dovermene andare, e credo che passerò a trovare Luca”. Non so come, ma dobbiamo dirci due parole, concluse senza parlare.
Guardò sua moglie con l’espressione di un vagabondo, prima di farsi una piccola valigia, prima di andarsene.
Rita rimase immobile per un po’. Pensò che Luca era stato un fesso, a mettere un pezzo del suo cognome nel nick. Riprese a piangere, mentre lentamente si alzava e si chiedeva dove fossero le chiavi della sua X3. Pensò anche che quella macchina era troppo grande per lei, gliel’aveva presa quel fissato di suo marito. I parcheggi erano un problema enorme, con quell’astronave. Magari la cambio, pensò. Entrò in carcere con quello stupido pensiero che galleggiava nella sua mente, ma mentre urlava e piangeva davanti a suo figlio un’ondata lo affondò in un colpo solo. Chissà da dove veniva, quell’ondata misteriosa.

4 commenti:

  1. Ci pensavo proprio ieri quando ho letto il tuo penultimo post, che tu avessi una propensione letteraria (il termine velleità non mi pare si addica nel tuo caso), ma un'idea me l'ero già fatta leggendo le tue recensioni musicali. Hai scelto un argomento difficile: io dico che sei bravo. Sara

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  2. Molto bello Alessandro, scrivi molto bene e senza troppi giri di parole. Da leggere tutto d'un fiato! Posso immaginare la scelta del nickname di tal Fabio Morganti da che cosa derivi :-)

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  3. Ciao Ale
    davvero molto molto bello e sottoscrivo le parole di sara e nico! Quello che ti posso dire è continua continua continua
    un saluto

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  4. Siete gentilissimi, grazie davvero! A dire la verità il racconto risale al 2006, per cui - sembra strano ma è così - è una pura coincidenza! Trovavo il soprannome Morgan molto adatto ad un pusher... Vedrò se riuscirò a tirare fuori qualcos'altro, scrivere per me è perlopiù un fantastico sfogo, quindi a volte le cose che escono sono impresentabili...

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