Silas Flannery è il gestore di un interessante blog collaborativo, Il padre dei racconti, a cui tutti possono contribuire con le loro opere. Ho deciso di mettermi in gioco anch'io con un racconto intitolato "Day Hospital". Lo trovate qui.
Fateci un salto, se vi va, e fatemi sapere cosa ne pensate.
Un grandissimo grazie al gentilissimo Silas, sia per lo spazio concessomi che per le generosissime (e francamente eccessive) parole di elogio.
EDIT: il blog "Il padre dei racconti" è sparito (Silas, dove sei finito?), per cui ripubblico qui il mio racconto.
I capelli bianchi del primario avanzavano lungo il corridoio. Lui stava a testa china, gli occhi puntati sulla cartella clinica di qualche suo amico, mentre tutti al suo passaggio si appiattivano lungo le pareti, si fiondavano verso la prima porta aperta per non ingombrare il tappeto rosso del grande capo. Avanzava come un automa, dritto come un fuso. Mi sono sempre chiesto come facesse a non sbattere contro i carrelli, a non schiantarsi contro l'infermiere o lo specializzando che corrono come dannati da una parte all'altra del reparto dalle otto del mattino alle otto di sera, a essere ottimisti. Forse ha due occhietti ben camuffati tra le ciocche candide, organi di senso di cui possono essere dotati solamente gli esseri superiori.
Non sapevo che faccia avesse. Nelle rare volte in cui mi ero trovato assieme a lui in una stanza la mia unica preoccupazione era di sparire nel modo più efficace possibile. Non che fosse un compito difficile: per il primario gli esseri inferiori come me non meritavano considerazione, alla pari dei batuffoli di polvere che si annidavano negli angoli del suo reparto. Quei batuffoli sembravano vivere per conto proprio: capitava di correre lungo un corridoio e di trovarteli tra piedi, quasi a reclamare attenzione. “Siamo qui! Ci vedi? Perché non ci rivolgi mai la parola?”, e tu li scacciavi con una pedata, pensando: ma come cazzo puliscono qui? Ecco, io ero nient'altro che polvere.
Di solito i capelli bianchi suggeriscono saggezza. Nei reparti d'ospedale, accompagnati in una malefica triade dal camice e dal “Prof.” che precede il nome nel cartellino, suggeriscono timore reverenziale, portano tutti gli organismi ad essi sottoposti a contrarsi in posizione di difesa: immobilità, silenzio tombale, efficienza e velocità nel rispondere quando interpellati (e solamente quando interpellati). Annullare totalmente l'impulso di reagire ad un rimprovero, ad un insulto, fosse anche con la mimica facciale. Io non credo di esserci mai riuscito.
Il prof era una presenza rara in reparto, ma il clima di terrore da lui instaurato aleggiava nei corridoi come una nube tossica. Anche i pazienti avevano paura di lui, ma era un timore speciale, il timore che ha un fedele nei confronti della sua divinità. Il timore dei suoi sottoposti era invece la corazza superficiale sotto a cui si celavano varie gradazioni di odio, miscelate in maniera proporzionale all'accondiscendenza. Se riuscivi a seppellire l'odio sotto ad uno spesso ed appiccicoso strato di servilismo la tua carriera era quasi garantita. In questo modo l'odio diventava un piccolo nucleo sclerotico di cinismo, una cosa che duole ogni tanto, ma a cui a lungo andare non si presta più attenzione, un male con cui si impara a convivere.
Io non sono mai riuscito a nascondere il mio odio, e di conseguenza la mia accondiscendenza stava a zero. Il mio odio era un tumore che si gonfiava sempre più, una bestia piantata tra gli emisferi cerebrali che ogni giorno si alimentava di dettagli, sfumature, piccole e grandi ingiustizie che gli altri, a quanto pare, digerivano benissimo. C'erano giorni in cui lo sentivo pulsare tra le tempie, ed allora mi irrigidivo ancora di più, mi rattrappivo contro la parete per evitare di essere sfiorato. C'erano giorni in cui avrei potuto esplodere.
Quel giorno era uno di quei giorni. Mentre mi recavo in ospedale, poche ore prima, avevo sfiorato l'incidente per colpa di quella cazzo di Audi. Stava di traverso all'imboccatura di un senso unico, come tutti i giorni. Il proprietario di quell'auto grigia metallizzata, sempre lustra come un gioiello, riteneva di avere l'esclusiva su quello spazio privato. Uno dei tanti stronzi che crede che le regole si annullino se le infrangi costantemente. Sempre lì stava, sempre con quel culo enorme che mi sbatteva in faccia, tanto da imprimermela nella memoria, la sua targa. Era una familiare, una di quelle macchine che quando passa per strada sembra urlare: “Fate largo, che devo passare io”, ed era troppo grande per quello spazio in divieto di sosta. Ingombrava la visuale, impediva di scorgere le auto che arrivavano dal senso unico.
Andavo di fretta, ero in ritardo. Ho rallentato, ho pensato che non arrivasse nessuno, ma mi sbagliavo. Il tizio sull'utilitaria per fortuna non andava molto forte, è riuscito a fermarsi in tempo. Ho alzato la mano in segno di scusa, ma quello continuava a sbraitare e a suonare il clacson. Sono ripartito e dallo specchietto lo vedevo agitarsi nell'abitacolo, senza dare segno di voler ripartire. Ho pensato di tornare indietro, ma non potevo, ero in ritardo, c'era traffico. E mi pulsavano le tempie. All'arrivo in ospedale uno specializzando mi ha rimproverato per il ritardo. Ho provato a giustificarmi, ma quello era già sparito. Un essere piccolo ed occhialuto, con una calvizie incipiente. Aveva una bocca inadatta a sorridere. Pensavo di continuo che se fossi diventato come lui, un giorno, mi sarei buttato da un ponte.
Gli infermieri avevano già misurato le pressioni e le frequenze cardiache, per cui non avevo nulla da fare. Le facce erano scure, tutti urlavano per la minima stupidaggine. Era uno di quei giorni da buttare direttamente nel cesso. Ho provato a chiedere allo specializzando cosa stesse succedendo. Mi ha guardato come se gli avessi chiesto di spiegarmi la fisica quantistica applicata alla teoria del multiverso. La caposala mi urtò mentre correva verso non si sa quale destinazione e mi fece finire a terra. Mi stavo rialzando quando il primario fece la sua comparsa.
Calò il silenzio. Il corridoio si svuotò. Attorno a lui un nugolo di specializzandi simile ad uno sciame di mosche lo seguiva senza proferire verbo, a mani conserte come in chiesa. Soltanto io ero rimasto nel corridoio, appiattito al muro come una sogliola.
Il primario alzò gli occhi verso di me.
Era un bell'uomo, niente da dire, nonostante i suoi settanta anni e passa. Ma la sua faccia aveva qualcosa di strano e non riuscivo a focalizzare cosa. Quegli occhi, quelle sopracciglia arcuate... La testa pulsava più che mai.
Riabbassò lo sguardo. Non mi aveva visto? Poteva essere. Io ero un batuffolo di polvere. Mi avviai verso lo specializzando che stava controllando la cartella clinica di un paziente, ma anche in lui ora c'era qualcosa che non andava. Mi guardò – e non c'era forse qualcosa di familiare nei suoi occhi? – ma non mi vedeva, fissava un punto dietro le mie spalle. Non capivo. Entrò un'infermiera e mi scaraventò a terra. Lei parve non accorgersene.
Il dolore alla testa era sempre più forte, mentre tentavo di rialzarmi. Non sapevo cosa fare. Ero diventato un fantasma. Mi avvicinai allo specializzando ed iniziai ad agitare le mani davanti ai suoi occhi. Niente da fare. Ero ormai disperato quando vidi l'oggetto che stava afferrando: sembrava una siringa, di quelle che si usano per l'insulina, ma era più piccola e sottile. Al posto dell'ago brillava una capocchia di spillo azzurra. Lo specializzando avvicinò quell'aggeggio al braccio del paziente e premette un pulsante. Il paziente non sembrò accorgersi di nulla. – E anche oggi il prelievo è fatto – disse. – Grazie – rispose il paziente, e anche lui era strano. Alle braccia non aveva cateteri, solamente un affarino che sembrava incollato al bicipite, con una luce blu che lampeggiava ad intermittenza. Il letto su cui si trovava era sottilissimo, poggiava la testa su quello che sembrava essere un rigonfiamento del materasso.
La testa esplodeva, e in quel momento pensai: ho un tumore al cervello e queste sono allucinazioni. Non c'era altra spiegazione. Ma non potevo crederci. Era una spiegazione orribile. Serrai gli occhi e li riaprii, mi schiaffeggiai con violenza, ma non servì a nulla.
La follia si impadronì di me quando, sul cartellino dello specializzando, lessi il mio cognome.
Feci un balzo all'indietro e iniziai ad urlare. Corsi via dalla stanza e nel corridoio mi imbattei nel primario. Mi fermai e lo fissai. Lui non mi vedeva, nemmeno con i suoi occhietti nascosti tra i capelli. Mi avvicinai e lo spinsi a terra. Cadde come un pupazzo, senza alcuna reazione. Iniziai a prenderlo a pugni, gli ruppi gli occhiali, e mentre lo facevo sentivo l'odio sgonfiarsi come un palloncino, il suo battito da cuore malato rallentare ed infine morire. Ma io continuavo, lo prendevo a calci, mentre i suoi servi specializzandi, che forse ora inspiegabilmente mi scorgevano, arretravano, ma a me non importava. Picchiavo quel figlio di puttana, quel barone di merda, quel signorotto del cazzo che trattava tutti come schiavi per poi prendersi i meriti del loro lavoro, quello schifoso nepotista...
...che ero io.
La dentiera insanguinata giaceva lontana sul pavimento. L'uomo a terra sputava sangue e saliva, mentre tentava di rialzarsi. Raccolse la targhetta su cui, accanto alla dicitura “Prof.”, era stampato il mio nome. Alzai gli occhi e scorsi un orologio attaccato alla parete: erano le 9 e 15 del 15 novembre 2065. Stavo per svenire quando vidi lo specializzando avvicinarsi di corsa. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, mentre aiutava il primario a rialzarsi e gli chiedeva: – Che è successo, papà?
Certo che mi assomiglia, pensai prima di perdere i sensi.
Mi dissero poi che ero rimasto in coma farmacologico tre giorni. Quando mi svegliai ero pieno di cateteri e drenaggi. Avevo subito tre interventi e altrettante trasfusioni, ma finalmente ero fuori pericolo.
Lo schianto era stato violentissimo, l'utilitaria andava molto veloce. Per un miracolo il conducente non si era fatto nulla. La sua macchina era da buttare, ma aveva deciso di non rivolgersi all'assicurazione. – Tanto dovevo rottamarla – mi disse quando venne a trovarmi. Una di quelle persone che ti fanno recuperare fiducia nel genere umano. Negli anni successivi ripensai molte volte a quell'omino dall'aria triste e gentile, che mi aveva quasi ucciso ma che, senza saperlo, mi aveva salvato da quello che sarei potuto diventare, un passo alla volta, senza rendermene conto. È un pensiero che mi solleva, mentre guardo mio figlio sguazzare nella piscina gonfiabile.
Non assomiglia per niente a quello specializzando.
Macché eccessive, falla finita. :)
RispondiEliminaInnteressante e da diffondere il progetto di Silas, che ha ospitato anche me come sai.
Ancora complimenti!
Stefano
Concordo con web runner ... prenditi tutti i complimenti perchè sono meritatissimi e grazie per avermi fatto conoscere il blog di Silas, una gran bella idea e dobbiamo passareparola...
RispondiEliminaE non fare il modesto, ché il racconto ospedaliero è da paura! :)
RispondiEliminaTroppo buono, Ale. E sottoscrivo il commento del signor Tamburino che mi precede.
RispondiEliminaHo fatto un salto di là e lo consiglio anche agli altri: ho letto con stupore e commentato con vivo piacere. Ri-complimenti, Ale! :D
RispondiEliminaTutti da Silas! Concordo in pieno!
RispondiEliminaNon so proprio cosa dire, se non ringraziarvi di cuore...:-))))))
RispondiElimina