Davanti a me c'è una vecchina. Si è accartocciata in uno spazio minuscolo del letto con le mani aggrovigliate alla sponda di metallo. Tiene la testa inclinata a sinistra in maniera innaturale, come se il collo a cui è attaccata non riuscisse più a sostenerla. A osservare il collo non è difficile crederlo: sembra un torsolo di mela rosicchiato.
La mandibola compie un movimento perpetuo: destra-sinistra-destra-sinistra, uno slittamento monotono, un ruminare saliva privo di funzione. Ogni tanto il movimento si interrompe e da corde vocali esauste escono suoni che vorrebbero disperatamente essere parole, e a volte ci riescono: capita di intuire "male", oppure "sete", oppure "ancora", mentre l'infermiera porge alla sua bocca un cucchiaio pieno di sostanze nutritive prive di pericolose spigolosità e croccantezze. Come quella del pane appena fatto, che scricchiola sotto i denti prima di cedere e rivelare al palato il fragrante e vaporoso cuore lievitato.
La vecchina manda giù la gelatina e guarda. Gli occhi sono palle nere e dietro a quegli occhi qualcosa ha smesso di funzionare. Una piccola cosa forse, ma questo è bastato a guastare totalmente la sala comandi, lasciando intatti i centri sensitivi. E così il capitano scorge gli scogli e non può schivarli perché il timone è rotto. Vede tutto e sente tutto: il catetere che provvede a svuotare la vescica, l'ago infilato nell'unica vena sopravvissuta della mano destra, il calore appiccicoso del pannolone, la carne aperta dei decubiti. Sente il cuore battere forte e chiaro. La tormenta di notte, come se con insolenza volesse ribadire la propria supremazia su tutto il resto, il proprio potere. Sono io che decido quando devi andartene, le dice. Sono io che porrò fine a tutto quando ne avrò voglia. Qui dentro tutto funziona: hai gli esami del sangue di un quarantenne. Scoppi di salute, non sei contenta? Così la schernisce mentre suona il suo ritmo interminabile, e quando deciderà per capriccio o per sfinimento di interrompere il concerto tutti penseranno: meglio così.
Già, meglio così. Un pensiero ipocrita e contraddittorio, un pensiero con cui sfoghiamo l'intimo senso di liberazione verniciandolo di pietismo. Un pensiero ovvio e allo stesso tempo incredibile, perché dovrebbe presupporre l'impossibilità di agire diversamente. Ma le alternative non sono contemplate, non si discutono, non si possono nemmeno nominare senza incorrere in accuse terrificanti. Ma davvero esiste qualcuno a questo mondo che non ci pensi almeno per un attimo? Io ci penso, davanti a questo letto, e provo orrore. Perché tutti penseranno alla stessa cosa, davanti a questo letto, e tutti passeranno oltre. E tutti un giorno diranno – diremo –: meglio così.
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