Soundtrack: Lazarus, David Bowie
Il telefono vibra tra le mie mani verso le tre di notte proprio mentre sto superando una sezione complicata di un gioco chiamato "Limbo", in cui si è chiamati a guidare un bimbo in un mondo grigio-nero popolato di ragni biomeccanici e scheletri industriali, molto ben fatto devo dire, permeato di un'inquietudine che non esplode mai in vero e proprio terrore ma che ti intossica come un veleno preso a piccole dosi. Viene quasi da pensare che gli sviluppatori abbiano chiesto qualche consulenza ai piani alti. Con un certo disappunto esco dal gioco confidando di aver superato l'ultimo checkpoint e leggo il messaggio che mi è appena arrivato: cognome, nome e indirizzo seguiti da un "Buona Pasqua". I miei capi hanno uno strano senso dell'umorismo.
Allaccio gli scarponcini, sistemo l'armamentario all'interno di una grossa valigia e decido di recarmi sul posto a piedi. La luna illumina a giorno le strade deserte, è un peccato non approfittarne... e in fondo ho la sensazione che non sia necessario essere frettolosi. Mi avvicino al luogo indicato con estrema calma, osservando la spazzatura ai bordi del marciapiede, una poltiglia rossa che doveva essere un gatto in mezzo alla carreggiata, i necrologi attaccati a fianco di una chiesa (chiamatela deformazione professionale), le case mute. Nella mia mente riesco ad associare ad ogni porta un volto, un letto, una particolare sfumatura di sofferenza, e quando lascio i pensieri liberi di vagare tra i ricordi – passati o futuri che siano – le case iniziano a gridare, sanguinare, rantolare, e l'intero quartiere intona una terrificante sinfonia infernale, un rumore che chi fa il mio mestiere deve imparare a gustare a piccole dosi per non impazzire. Questa notte non sono dell'umore giusto, per cui decido di tenere il volume al minimo. Sento il metallo contenuto nella valigia scricchiolare.
Come quasi sempre accade la meta è facile da individuare: le finestre sono tutte illuminate. Mi incammino lungo il vialetto e quando la luce proveniente da una finestra mi inonda mi ritrovo a pensare alla locandina dell'"Esorcista". Mi scappa da ridere: forse anch'io ho un senso dell'umorismo un po' particolare.
Tra le auto parcheggiate oltre il cancello riconosco la Panda bianca dell'Asl. Oh cazzo, penso.
Prima di bussare mi accosto alla finestra. Vedo un letto circondato da quattro persone. Una di loro indossa una casacca verde e sta misurando la pressione al vecchio. Sembrano tutti molto tranquilli a parte il malato. Il suo respiro superficiale mi intasa le orecchie e i suoi occhi aperti e vitrei sono come due soli accecanti incastrati in mezzo ai miei emisferi cerebrali. Il medico alza gli occhi verso la finestra e per un attimo il suo sguardo incrocia il mio. Dammi una mano, gli dico. Fammi entrare. Non farlo aspettare.
Lui abbassa lo sguardo prima di scambiare due chiacchiere di circostanza con i parenti. Dentro di me riesco a riprodurre il dialogo alla perfezione, scandirne le pause, vedo i suoi pensieri vagare apparentemente in cerca di qualcosa, mentre in realtà stanno scappando dal buco nero che io con poche semplici parole ho aperto nella sua mente. Tra poco lui se ne andrà e quel buco nero si richiuderà lasciando una piccola cicatrice, mentre io mi siedo sul ciglio della porta e apro la valigia. Prendo la falce dal manico e la guardo: la lama è chiazzata di ruggine, il filo è rovinato. Occorre molta forza per usarla, e io sono stanca e vecchia. Ormai non basta più un colpo solo. Con la pietra pomice tento di ravvivare il filo per distogliere l'attenzione dal respiro del vecchio e penso all'Africa, ai bambini con le pance gonfie. Lì la falce è superflua, lì basta un pelapatate.
Credo proprio che dopo questo lavoro chiederò un trasferimento.
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