lunedì 4 luglio 2011

Trivella

Mi chiamano Trivella fin da piccolo. Per essere precisi, fin dal giorno in cui bucai un secchiello di plastica usando un pezzo di legno appuntito. Non fu una grande impresa - la spiaggia in cui mi trovavo era una discarica a cielo aperto, disseminata di cose dure e puntute - ma io a malapena riuscivo a dire "mamma", per cui posso soltanto immaginare lo sconcerto dei miei genitori mentre mi accanivo su quell'innocuo secchiellino, girando il legno con la foga sadica di cui sono capaci i bambini. Il nomignolo cadde in disuso fino al giorno in cui dovetti prendere un trapano per posizionare alcuni tasselli su una parete. Il chiasso perforante dell'attrezzo e la polvere bianca che veniva proiettata nell'aria riportarono a galla l'antico soprannome e ne provai uno strano piacere, come quando si rivede un vecchio luogo d'infanzia, come quando si ritrova un caro oggetto creduto smarrito. Sentii che quel nome mi calzava alla perfezione: con quell'insignificante trapano in mano mi sentivo bene, mi sentivo me stesso. A quei primi fori ne seguirono molti altri: in una parete piena di quadri vedevo soltanto una miriade di buchi, la tenacia con cui i chiodi sottili sfidavano la gravità. Per non parlare delle mensole e dei mobili pensili: era la stretta profondità di un buco a permettere la loro funzione, e nessuno ci badava. Non trovavo nulla di strano nella mia fascinazione, e anzi era incredibile che nessuno la capisse. All'origine di tutto ci sta un buco, cazzo!
Imparai a controllare la mia passione, perlomeno in pubblico. In casa svuotai un locale in disuso per farlo diventare la mia "stanza del buco". Le pareti bianche, leggermente alonate dai mobili, ben presto lasciarono il posto a buchi di ogni forma e dimensione: con il mio trapano a batteria sperimentavo punte sempre nuove, con una mola ne modificavo la forma sinuosa per vedere l'effetto che faceva. Diventò il mio laboratorio segreto, la stanza d'allenamento in cui coltivavo la meravigliosa e incompresa arte della Trivella.
Ma durò poco. Dopo un paio di settimane i carabinieri bussarono alla mia porta, probabilmente chiamati dai vicini, e videro la mia "stanza del buco". Non chiesero spiegazioni, non dissero nulla. Se ne andarono in silenzio per tornare qualche ora dopo con un'ambulanza e un'ordinanza firmata dal sindaco, in cui si stabiliva che avevo bisogno di un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Non avevo fatto del male a nessuno, non avevo allucinazioni, non credevo che gli extraterrestri avessero sostituito le persone attorno a me, ma per loro ero pazzo. Mi fecero una puntura e mi ritrovai in un ospedale psichiatrico, circondato da uomini e donne che vagavano nei corridoi con occhi sbarrati, o che fissavano tutto il giorno una tv accesa. Questo vidi nei brevissimi interludi che mi concedevano tra lunghissime sedute di sonno e altre in cui la mia persona veniva affogata sotto una spessa nebbia farmacologica. Nei momenti di lucidità cercavo di darmi una spiegazione, ma non la trovai mai, e non la trovo nemmeno ora: forse il vicino di casa era uno importante, uno che non si degna di venire a suonarti il campanello se gli dai fastidio. Uno che può permettersi di passare direttamente alle maniere forti con il beneplacito dello Stato. Forse è andata proprio così.
Passò una settimana, o forse poco meno, prima che mi lasciassero andare. Il primario mi convocò per annunciarmi che un suo amico aveva trovato un modo per incanalare la mia passione per i buchi. - Ti piacerà, vedrai - mi disse prima di congedarmi, con la stessa semplicità con cui mi aveva drogato per una settimana, consapevole del proprio reato.
E così mi portarono qui. Mi diedero una casa con una bella vista, tre pasti al giorno e obbligo di firma presso il posto di lavoro, come in galera. Il panorama è bello davvero, con le montagne maestose che all'alba riflettono la luce del sole, e nella casa in cui vivo c'è una stanza insonorizzata ideale per i miei esperimenti. Hanno pensato proprio a tutto, insomma. Ma io non capisco il senso, perché a parte i miei personali buchi, io non ho ancora fatto nulla. Forse mi tengono semplicemente buono, perché sanno quello che mi hanno fatto. Ma d'altra parte, a chi crederebbe a un pazzo che ama trapanare?

Ieri mi hanno fatto vedere il motivo per cui sono qui: un'enorme bestia a motore con un terrificante dispositivo rotante disposto anteriormente. - Questo mangia i sassi - mi ha detto il capo-cantiere, ed era vero. Quella era la Trivella, il trapano dei miei sogni, lo strumento più portentoso mai costruito dall'uomo. I comandi erano straordinariamente semplici, dopo la prima spiegazione del capo-cantiere avevo già capito tutto. - Si vede che ci sai fare con i trapani - mi ha detto.
E così oggi è il grande giorno. Oggi la Trivella inizierà a bucare la montagna. Mi sento felice come mai mi ero sentito prima.

Fumo e rumore di petardi, forse di spari. Nella nebbia vedo uomini incappucciati con bastoni in mano, vedo bambini con la bocca coperta da fazzoletti. Sono venuti a protestare, non vogliono che io buchi la loro montagna, ma loro non capiscono quanto sia importante per me, non capiscono che questo è lo scopo della mia vita. Lo Stato mi ha dato uno scopo. Come ho potuto dubitarne, Lui che non ha fatto che educarmi per giungere a questo momento? Guarda come gliele suonano i carabinieri. Ben gli sta. È per il loro bene, tutto è per il loro bene, devono solo aver fiducia nello Stato. Basta sottomettersi per essere ripagati. Basta dormire, e il dottore poi vi ricompenserà, come ha fatto con me.
Due uomini hanno sfondato la barriera e si dirigono verso di me. Vogliono disarcionarmi dal mio destriero d'acciaio, ma non ce la faranno, perché io sono Trivella. Allungo la mano verso il quadro comandi e giro la chiave. La Bestia si rianima dal suo sonno, il possente muso rotante a violentare l'aria fresca.
Venite a prendermi, adesso.

4 commenti:

Rispettate le regole del buonsenso e della civiltà, e una firma non guasta mai. Nascondersi dietro ad un "anonimo" è solo un modo per non prendersi la responsabilità di ciò che si dice.